Vizi pubblici, virtù private

Hanno vinto i viziati. Il loro successo è la colpa di chi li accontenta. Il Palazzo resta a guardare come noi: una settimana in più, due con la sosta, senza campionato di calcio.\r\nTra i due litiganti il terzo gode. Non stavolta. L’Associazione Italiana Calciatori si piega ma non si spezza, la Lega Calcio è immobile. Noi siamo impotenti, in quanto spettatori: d’altra parte possiamo gustare la Liga, ex scioperante.\r\n\r\nAlla preoccupazione per la più grave crisi economica dal ’50, il cittadino aggiunge sbigottimento. Esterrefatto perché centinaia di privilegiati fanno valere i propri diritti, dimentica che di questi godono i più e meno abbienti.\r\nC’è una diffusa ignoranza di concetto. Il calciatore è un professionista, ma invero dipendente. Risolvendo il rapporto con la propria società, è libero di firmare per un’altra. Che va trovata. Se così non è, il soggetto diventa ex dipendente, professionista, ma disoccupato.\r\nUna questione viziosa. Il giocatore scorda di essere subordinato, il presidente della squadra di essere datore di lavoro. Premesso e concesso un salario medio di un milione e 250 mila euro, è superficiale confrontare l’operaio con il calciatore. Il diritto non si flette alla retribuzione.\r\n\r\nLo sciopero del calcio non ha senso perché non esiste. Zero disagio sociale: domenica dopo pranzo più noiosa, ma nessuna privazione basilare.\r\nSiamo soli, ma non lo eravamo fino poco fa. In Spagna lo sciopero valeva cinquanta milioni, gli stipendi di duecento tesserati. L’accordo è stato trovato, il Barcellona non lo perdiamo.\r\nI soldi non spariscono. L’astensione dovrebbe annullare la giornata lavorativa e trattenere parte della retribuzione: in questo caso il turno di campionato slitta e si cancella nulla ai calciatori. Sciopero? No, dimostrazione.\r\nIn Spagna gli argomenti sono di valore, in Italia valgono due articoli. Le società alzano la voce contro (ex) presunti campioni. Quelli che giocano mai, che sono sani ma si allenano a parte. Emarginati. Come un abito attraente oggi e inguardabile l’estate dopo; l’acquirente se la prende con l’oggetto piuttosto che con se stesso. Ufficialmente è differenziare, in concreto è scaricare: il modus ha una denominazione, mobbing, ma guai a parlarne.\r\n\r\nSi sarebbe giocato, se fosse stata mantenuta la parola di otto mesi fa. Un accordo promesso e non firmato. I calciatori giocavano e attendevano la ratifica, ribadendo di non scendere in campo a fine agosto. Detto, fatto.\r\nA proposito dei “viziati” cari al ministro Calderoli, l’ultimo argomento è il contributo di solidarietà per redditi oltre novantamila euro. I calciatori vogliono che paghi la società, e il discorso regge. Se il contratto è sottoscritto al netto delle tasse (di allora), la nuova imposta sui redditi grava sul bilancio aziendale. Il cinquanta per cento dei club paga al netto, senza includere bonus e premi ai tesserati. Fa già ghignare questo, ma c’è di più.\r\nSi sciopera andando a lavorare. I giocatori sono a disposizione per partite amichevoli supplenti il turno di campionato slittato. Quello della tassa di solidarietà è il più comodo cavillo d’appiglio, aggregato alla questione madre del contratto. Il calcio non è solo Ibrahimovic, Del Piero e Totti. Lo slogan “Non è un discorso di soldi” è condivisibile, se la dimostrazione coinvolge anche chi percepisce 3000 euro nelle serie inferiori. Ma si sciopera solo in serie A, la residenza dei più colpiti dal contributo di solidarietà. Li appoggia la norma, li boccia la moralità. Ma questa è assenteista cronica.